Potrà sembrare un’enorme contraddizione se si pensa alle traiettorie che il pensiero occidentale ha percorso negli ultimi sei secoli, ma si avverte impellente la necessità di ripristinare quell’autorità culturale che l’affermarsi del moderno aveva contribuito a demolire, almeno nei principi

Potrà sembrare un’enorme contraddizione se si pensa alle traiettorie che il pensiero occidentale ha percorso negli ultimi sei secoli, eppure dopo i primi vent’anni del nuovo millennio, si avverte impellente la necessità di ripristinare quell’autorità culturale che l’affermarsi del moderno aveva contribuito a demolire, almeno nei principi. Per fortuna la contraddizione è solo apparente.
L’Umanesimo aveva ingaggiato la sua battaglia contro una scienza che si limitava a essere solo dottrina senza verifiche ed esperimenti, una scienza per sentito dire, per citazioni, obsoleta agli occhi di un mondo che invece aveva fatto del dubbio il proprio vessillo. Ciò non significa però che al vecchio paradigma conoscitivo (aristotelico) non bisognasse sostituirne uno nuovo (cartesiano): operazione di fatto avvenuta con infiniti vantaggi, ma anche con il sospetto di un certo rischio. Il metodo da cui avevano preso avvio le forme epistemologiche del sapere – il procedimento basato sul dubbio – di recente potrebbe avere imboccato una traiettoria che, declinata nelle maniere più estreme, si rivela una tanto clamorosa quanto insidiosa deriva che agisce nel profondo, carica di forza corrosiva, giungendo a modificare (e a minare per sempre) ogni tipo di autorevolezza che sia figlia di una competenza. Qui ora entrano in gioco le variabili del tempo che stiamo vivendo. Il principio di diffidenza, su cui da almeno seicento anni si fonda il nostro patrimonio identitario, avvolge così tanto il presente – e lo condiziona, lo rende impermeabile a ogni tipo di elaborazione critico-interpretativa, ne fa addirittura un monumento alla presunta libertà del pensiero – che da più parti ormai si invoca il bisogno di ripristinare quella (perduta) verticalità nei rapporti tra chi conosce e chi no.
La pandemia ha accelerato tale necessità proprio perché ha messo tragicamente a nudo un ventaglio di fragilità da cui a torto ci si riteneva immuni, svelando la debole impalcatura su cui si basa il traffico di informazioni – la rete, i social, le community – che hanno soppiantato le tradizionali istituzioni culturali, a cominciare dalla figura stessa degli intellettuali. Più che domandarsi se non si siano estinti, occorrerebbe chiedersi se la loro sia una voce ancora ascoltabile. Il discorso non intende minimamente alludere ad atteggiamenti nostalgici, ma se è vero che ci troviamo nel cuore di quella “cultura orizzontale”, evocata nel titolo di un pamphlet scritto da Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini, si dovrebbe invertire subito la rotta, fuggire da tutto ciò che continua a far coincidere la nozione di conoscenza con questa linea dell’orizzontalità.
L’argomento ha caratteri di urgenza. Nessuno intende negare la libertà di avere opinioni o di formarsene ricorrendo a qualsiasi strumento di informazione, anche i più originali e controcorrente, ma non si può dimenticare che autorità e autorevolezza non sono la medesima cosa, che le competenze acquisite determinano una gerarchia di voci all’interno della quale selezionare la più affidabile, la più credibile, la più efficace per sconfiggere l’ “infodemia”: un termine utilizzato dall’Oms per indicare – scrive Franco Brevini in Abbiamo ancora bisogno degli intellettuali? La crisi dell’autorità culturale – la «crescita patologica delle informazioni scarsamente vagliate o basate su false voci, che inevitabilmente disorientano l’opinione pubblica». Ai pericoli dell’epidemia se ne sono aggiunti altri, derivati appunto da questo rincorrersi di parole e contenuti fuorvianti. La domanda che sta nel titolo del libro di Brevini ha caratteri provocatori e implica risposte affermative. Mai come ora diventa credibile l’ipotesi non tanto di restaurare il principio di cieca obbedienza, ma il dovere di contrastare quel diffusissimo atteggiamento che Brevini definisce “iperegualitarismo”: un termine che fa rima con “iperindividualismo”, cioè conquista di una soggettività a cui nessuno intende rinunciare, anzi se ne fa vanto. Il saggio affronta il vero dilemma a cui le società più evolute sono invitate oggi a pronunciarsi: fino a che punto potrà reggere l’equivoco delle democrazie che nei casi più sprovveduti coincide con l’uguaglianza delle opinioni? Fino a quanto il rifiuto di ogni gerarchia e di ogni mediazione, quello che Brevini chiama “protestantesimo letterale” – un vero e proprio delirio epistemico, per cui tutte le opinioni hanno lo stesso peso – continuerà a condizionare le scelte strategiche dell’opinione pubblica e a orientare il flusso delle opinioni che, in quanto tali, risentono di una liquida volubilità?
Nella disastrosa parabola che contraddistingue il destino degli intellettuali nel secolo passato e in questo scorcio di nuovo millennio si manifestano sia i caratteri di un insuccesso che riguarda una casta di individui, sia i segnali di un mondo a una sola dimensione; una minestrone di cultura che legittima la regola secondo cui è affidabile la quantità, non la qualità, ma nella formula del “popolo sovrano” nasconde quella «sindrome da stanchezza democratica» individuata da David Van Reybrouck.
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